I corridoi di luce di Bruce Nauman all'Hangar Bicocca

2022-09-18 19:34:45 By : Mr. JD Zhao

Una volta entrati in Hangar Bicocca per la mostra dedicata a Bruce Nauman, Neons Corridors Rooms si viene condotti nello spazio enorme e dal soffitto altissimo dell’Hangar, spazio aperto ma a tratti chiuso dalle isole-corridoi. Le opere realizzate si possono guardare ma si può anche interagire con esse, in quanto “attivatori di azioni insolite in luoghi estranianti”. Si possono toccare le pareti di legno verniciato liscio o di colore naturale, i muri solidi, supportati dal sostegno esterno con telai e diagonali contrafforti. Le luci si impongono alla vista: una volta usciti dal corridoio con luce verde (Green Light Corridor, 1970), si verifica un’alterazione della percezione visiva per i successivi cinque secondi. Si riflette su come si osserva il mondo al di fuori dell’opera, della mostra intera.

L’esposizione presenta non solo installazioni luminose ma anche video storici delle sue camminate (Walk with Contrapposto, 1968), un invito a rallentare il ritmo dei nostri corpi e corridoi senza luci, specchiati, dove si può guardare altrove ma non sul proprio corpo, se non avvicinandosi (Double Wedge Corridor with Mirror, 1970).

La mostra, curata da Roberta Tenconi e Vicente Todolí con Andrea Lissoni, Nicholas Serota, Leontine Coelewij, Martijn van Nieuwenhuyzen e Katy Wan, è composta per lo più da opere imponenti, che riempiono lo spazio per tre metri o quattro di altezza, qualche corridoio troppo stretto per entrarci, alcuni cunicoli claustrofobici. Sono studiati sistemi istallativi che partono bilanciati dalle funi d’acciaio, connesse al soffitto, lunghe parecchi metri, supporto delle opere e parte di esse come anche i generatori dei neon, collocati vivi vicini al soggetto. L’opera Die si accende in coro: le luci, una alla volta, lampeggiano con colori diversi. Il tema principale dell’orchestra: la catarsi della morte.

Francesco Poli ne parla così: “Le parole appaiono e scompaiono, mutando incessantemente colore e posizione, l’opera è un’elencazione enciclopedica compulsiva di attività e attitudini umane su cui torna ossessivamente a sovrapporsi l’alternativa estrema della vita e della morte.” (One Hundred Live and Die, 1984). Si osservano televisioni che sentenziano frasi scritte in silenzio, a macchina su qualche programma di grafica, esse si sovrappongono con una transizione; se si prova a fotografarle: l’immagine si sporca di diagonali tipiche dei vecchi monitor. “…Precision and Accuracy…” (Left or Standing, Standing or Left, 1970/1999). Altri schermi mostrano spettatori nello spazio in una continua separazione visuale dal Se, una condizione d’impersonalità verso se stessi (Corridor Installation, 1970).

C’è un dialogo tra i materiali scelti poiché le sculture comunicano con gli elementi architettonici dello spazio espositivo: il tema è Ferro (Three Dead-End Adjacent Tunnels, Not Connected, 1981 e Musical Chairs, 1983). Mapping the Studio II with color shift, flip, flop, & flip/flop (Fat Chance John Cage), 2001 è il titolo della penultima sala costruita appositamente per proiettare grandi riprese monocrome gialle, verdi o bluastre, pareti alte quattro metri circa, qualche sgabello in mezzo e un caos di proiettori sul soffitto. Si può udire un rumore bianco persistente nel sottofondo. È la rappresentazione del suo studio, quello che si osserva in quest’opera di immagine in movimento. L’ultima opera è una fila di altoparlanti all’esterno, proveniente dal Tate, (Raw Materials, 2004), voci che paiono ringraziarci e riscaldarci con il loro tono, lo spazio si riempie di parlato.

La mostra va vissuta, non si può fotografare, è un’esperienza sensoriale. Essa non si limita al visivo ma aggiunge l’aspetto multisensoriale del tatto, udito, olfatto e vista. Le opere non intendono farsi ammirare per la loro fattezza estremamente raffinata, quanto per le loro dimensioni. Il corridoio funziona anche per costringere lo spettatore a fermarsi e rendersi conto degli impedimenti fisici. Come “classificazione” dell’artista possiamo parlare di contemporaneo, post-minimal, performativo, concettuale, difficile incasellarlo, un personaggio così poliedrico. Si può osservare la somiglianza con Asher per l’operazione architettonica; con Kosuth per il neon; con Cunningham per la performance. Nauman dice: “Se sono un artista e sono nel mio studio allora tutto quello che faccio è arte”.

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